«[…] accanto alle macchine agricole […] chiocciavano nelle loro gabbie piatte, sporgendo il capo tra le sbarre […]», cui viene affiancata quella della folla che si addensa
« nello stesso punto senza volerne sapere di muoversi […]».
Metafore emblematiche del grigiore
piccolo-borghese, come quella dei
«tre operai ansimanti che giravano la gran ruota d’una macchina per fare l’acqua di seltz. […]».
Emma
è una donna che si è creata un mondo fittizio, chiuso in se stesso,
in cui trova poco spazio la realtà. È, come del resto gli altri
personaggi, una macchina, che artificiosamente vive la propria vita.
I suoi gesti sono il riflesso di questa “macchinosità”:
«Leon continuava a leggere, Emma l’ascoltava, facendo girare macchinalmente il paralume di garza della lampada […]»;
quasi un
corpo che comunica senza suoni. Tuttavia non è l’unica all’interno del romanzo:
«Rodolphe rimescolò tutte le altre [lettere] e macchinalmente si mise a rovistare in quel mucchio di fogli e oggetti […]»
e ancora:
«Charles ripeté come una macchina […]».
Il
termine, nella sua forma primitiva (macchina)
e derivata, percorre il romanzo come un fil
rouge,
attestandosi nei luoghi salienti di esso, come a voler sottolineare
la vuotezza di quel artefatto mondo piccolo-borghese.
C’è una scena in Madame Bovary, che divide il romanzo in due parti; è quella dell’operazione andata male, eseguita dal Dottor Charles, di cui resta vittima Ippolito Tautin, stalliere all’albergo del Leon d’oro. È un’azione misera, meschina, l’ultimo episodio di un’esistenza già fallimentare ma che si ingrandisce iperbolicamente nella struttura del romanzo, ne occupa simmetricamente il centro, prepara il ritmo discendente dell’azione e l’avvia verso la catastrofe, come in una tragedia greca. Dopo l’operazione fallita, Madame Bovary, disperata, grida: «Ah! perché non sono almeno la moglie di uno di quei vecchi scienziati calvi e curvi i cui occhi protetti dagli occhiali verdi, sono sprofondati eternamente negli archivi della scienza! Potrei incedere con fierezza al suo braccio».Questo breve monologo è declamato, con la voce terribile della delusione e dell’ira, da un personaggio che realizza finalmente, attraverso il destino di un altro, il proprio fallimento. In concomitanza con questo tragico epilogo ecco ricomparire il termine macchina, accompagnato da un significativo aggettivo:
« […] la pelle [del piede] appariva prossima a rompersi, tutta chiazzata dalle ecchimosi provocate dalla famosa macchina. […]».
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